BUONE PRATICHE PER CRESCERE PERSONE FELICI

La parola a

“La testimonianza è la strada maestra”

È il titolo e anche l’auspicio di un evento che si è svolto di recente, ad Alba, organizzato dall’associazione La Quercia Scout ODV, dopo il significativo incontro del 13 ottobre 2024 con Gino Cecchettin che nel suo libro ha scritto: “Cara Giulia, tu avresti voluto una società fatta di persone che reagiscono positivamente, che non si lasciano sopraffare dalla negatività e dalla violenza: questo significa restare umani”.

Hanno guidato la riflessione, durante la serata, la dottoressa Cristina Giordana e il professor Ernesto Gianoli moderati da Nicola Conti.

Abbiamo posto alcune domande a Cristina Giordana, psicologa, psicoterapeuta, formatrice e consulente genitoriale, per riflettere sull’adolescenza, sull’educazione e anche sull’avvicinamento alla solidarietà, in bilico tra rischi e prospettive, nel difficile equilibrio che si deve trovare nel percorso di crescita.

“Buone pratiche per crescere persone felici. Percorsi educativi per guidare bambini e adolescenti verso il benessere personale”. Partiamo dal titolo della serata. Può riassumerci questo messaggio?

«È un po’ il riassunto del messaggio che abbiamo voluto esprimere nella serata. Era un invito esteso a genitori, educatori, adulti di riferimento per ragionare su quali potessero essere delle buone pratiche, declinazioni nella vita quotidiana di aspetti che potessero interessare lo sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Sono emerse considerazioni interessanti sulla possibilità che abbiamo come adulti di far sviluppare il cervello dei ragazzi in formazione proprio perché è un cervello ancora immaturo. Come? Innanzi tutto ritagliando del tempo di quantità quando sono piccoli e, mano a mano, crescendo, di qualità con loro, del tempo esclusivo dedicato a loro, al netto di tutti i device.

Sappiamo benissimo che la realtà quotidiana di una famiglia è costellata da eventi difficili, stanchezze, lavoro, problemi, pesantezze. Anche in questo caso il riuscire a sintonizzarci sulle emozioni dei nostri figli, riuscire a integrare le emozioni negative con quelle positive, anche quelle situazioni più difficili possono rivelarsi molto preziose per allenare la mente dei ragazzi e per aiutarli a evolvere».

Può fare qualche esempio di buone pratiche per crescere persone felici?

«Rispetto al riassunto di quello che era emerso nella serata, gradatamente i figli hanno sempre meno bisogno di una presenza fissa e regolare del genitore che può pian piano sottrarsi, ma continuare con uno sguardo benevolo, sintonizzante, accettante rispetto alla vita del figlio che pian piano cresce e che ha bisogno di ritagliarsi sempre più spazi di autonomia e passare dal territorio dell’obbedienza al territorio dell’autonomia e dello sviluppo suo proprio e della sua vita.

Esempi di buone pratiche… Dipende dalla fascia di età del bambino e del ragazzo perché è talmente variabile lo sviluppo tra gli zero e i 15-20 anni che non possiamo dare delle regole generali. Il gioco è proprio quello di riuscire a cogliere la crescita del bambino che abbiamo davanti e riuscire a sintonizzarsi sui suoi bisogni di accudimenti piuttosto che di più autonomia.

Se vogliamo pensare e lavorare per la felicità dei nostri figli benché non siamo noi a potergliela offrire, ma devono andare a cercarsela da soli nel mondo, dobbiamo tener presente che felicità ha una radice che deriva dalle lingue indo europee e possiamo collegarla alla fecondità. Quindi penso anche che un bambino e un ragazzo felice sia qualcuno che possa esprimere il suo essere e la sua peculiarità nel mondo anche se non corrispondono alle aspettative che il genitore ha su di lui».

Secondo Lei la solidarietà/lo spirito di volontariato si può imparare in famiglia sin da bambini?

«Credo per eccellenza la buona pratica che può fare un genitore è la sua stessa testimonianza di vita al di là di qualsiasi sua parola. La testimonianza incarnata di un genitore che declina quella che è la sua vita quotidiana e il valore della solidarietà è la strada maestra perché quei figli possano respirare, non solo imparare, quel clima in famiglia e quel valore condiviso».

Secondo Lei il benessere personale aiuta il benessere della comunità? Può essere considerato una spinta all’azione solidaristica?

«Penso di sì, ma bisogna fare una specifica: non in un’ottica individualista, cioè penso solo al benessere personale e tutto il resto passa in secondo piano, ma io come persona mi prendo cura di me stesso ad ampio raggio, intendo una cura del mio benessere psico fisico, riesco ad avere risorse, energie, solidità mentale per dedicarmi anche alle altre persone e diventa poi un circolo virtuoso».

Spesso gli adolescenti sono iper connessi continuativamente, ma quando si incontrano non si parlano e non si relazionano: ognuno tiene il proprio cellulare e stanno compresenti in uno spazio. Quali suggerimenti può dare per far sì che tornino a relazionarsi in questi spazi condivisi, magari proprio per prendersene cura?

«Sugli adolescenti iper connessi ci sarebbe da parlare per ore. È un’emergenza educativa assolutamente evidente e dimostrata sotto tutti i punti di vista. Ci sono rischi connessi a questa imperante digitalizzazione che non è solo un problema post Covid, si è solo incrementato con la pandemia. Non possiamo togliere i nostri figli completamente da quel mondo specie se sono adolescenti e specie se noi stessi come adulti mostriamo, di nuovo torna il valore della testimonianza, mostriamo davanti a loro che c’è un’iper connessione anche degli adulti. Li mettiamo nel mondo digitale sin da quando nascono e addirittura fin dalle prime ecografie e poi ci lamentiamo se da adolescenti postano le foto su Instagram. È incoerente da parte dell’adulto. Suggerimenti sono nella pre adolescenza (10-14 anni) assolutamente limitare dal punto di vista del tempo passato sui dispositivi, dare dei limiti ben chiari e netti e farli rispettare perché il cervello degli adolescenti non è ancora capace di fare quel passaggio di controllo in autonomia. Ci dev’essere una mente adulta che regola quel passaggio dall’alto e dall’esterno, senza pretendere che il figlio ne sia felice. Avranno la loro quota di rabbia e di frustrazione per questi limiti, ma sono necessari. Pian piano crescendo si può diluire il nostro controllo adulto nel momento in cui si osserva che il ragazzo ha interiorizzato alcune regole di navigazione in questo mondo».

Quali sono i rischi più minacciosi per gli adolescenti per non crescere felici?

«Un adolescente felice completamente sempre sarebbe inquietante. I rischi più minacciosi per non crescere poi adulti che possano essere felici è non portare questa testimonianza invece di adultità risolta, non così fragile e narcisista come vediamo adesso. I ragazzi dovrebbero poter attraversare il territorio dell’adolescenza potendo scontrarsi con degli adulti che fanno gli adulti che mantengono quel ruolo di adultità, di solidità, senza spaventarsi dell’adolescenza di un figlio».

 

 

Giorgia Barile

 

 

 

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