Il corso di formazione Io e l’Alzheimer

La parola a

“Il mondo dei caregiver, dei volontari e dei familiari di pazienti è ricco di impegno, ma spesso anche di solitudine”

La Cordata ODV, nell’ambito del Bando CSV per lo sviluppo di Idee formative, ha proposto il corso di formazione gratuito “Io e l’Alzheimer” rivolto a volontari e aspiranti tali.

Per offrire una minima base, sono stati forniti strumenti di conoscenza su tre livelli: l’aspetto clinico delle malattie neurodegenerative, il loro decorso, le varie manifestazioni con il dottor Piergiuseppe Zagnoni; l’aspetto relazionale, l’importanza cioè di capire che la relazione è fondamentale in un rapporto terapeutico con la dottoressa Michela Re; l’aspetto pratico suli atteggiamenti e i comportamenti utili ed efficaci per stare accanto, accogliere, fare delle cose insieme con la dottoressa Francesca Doni.

Luigina Bima presidente della Cordata ODV: «Vorrei sottolineare l’aspetto formale/organizzativo. La formula della co-progettazione con il CSV è una modalità molto positiva. Noi abbiamo definito la proposta formativa individuando i contenuti e scegliendo i docenti da proporre, il CSV ha fatto tutto il resto: iscrizioni, divulgazione, incarico ai docenti e relativo pagamento, invio link agli iscritti, “regista”, invio successivo della registrazione dell’incontro. Questa formula è molto opportuna per le associazioni, perché le sgrava da incombenze difficili. È un servizio impagabile».

Tutte le lezioni formative si sono svolte online per consentire a persone anche distanti tra loro di partecipare e per incoraggiare l’intervento di quanti, sovente, hanno paura del giudizio. Il mondo dei caregiver e dei familiari di pazienti con l’Alzheimer è ricco di impegno, ma spesso anche di solitudine.

«Molte persone che hanno partecipato hanno portato le loro testimonianze, i loro dubbi, le loro difficoltà, le fatiche e la loro ricerca di soluzioni.

È importante potersi esprimere ed essere ascoltato. Emerge che la società in cui viviamo non ama “essere disturbata” da malati difficili e fa di tutto per tenerli nascosti e far credere che il problema riguardi solo la famiglia del paziente. Parlare in pubblico della propria situazione è già un primo passo» ha detto.

 

Abbiamo posto alcune domande a Michela Re Psicoterapeuta e Psicolanalista, sull’aspetto relazionale.

I volontari come possono imparare a relazionarsi con le persone con demenza? 

«Il fatto di accogliere qualcuno a partire da un luogo dedicato, specifico per chi vive una demenza, talvolta fa dimenticare che si sta accogliendo prima di tutto dei soggetti. Si tratta certamente di persone che stanno affrontando una situazione complicata, ma può essere importante non ridurre la loro complessità alla demenza e quella dei familiari al compito di cura. È importante conoscere meglio chi si sta accogliendo, per potersi relazionare nel miglior modo possibile, per esempio quella persona può gradire il contatto fisico? Oppure quale discorso può essere per lui/lei maggiormente familiare?

È fondamentale essere sorridenti, il più possibile ben disposti, caratteristiche che sono trasversali a tutti gli ambiti di accoglienza».

I volontari come possono imparare anche a gestire le relazioni con i familiari e a entrare in empatia con malati di Alzheimer?

«Un’accortezza importante è che il luogo dove si accolgono le persone con demenza sia il più possibile tranquillo, i rumori siano ridotti, tutta l’attenzione dei volontari sia rivolta a loro e che si parli uno per volta. Come in tutte le situazioni in cui si accoglie qualcuno, ma in questo caso ancora di più, bisogna dare importanza a ciascuno e dargli/le tutto il tempo necessario per rispondere e per farlo/a emergere, ma anche dargli/le uno spazio privilegiato e riconoscere la sua importanza, l’apporto che ciascuno può dare a quell’incontro.

Forse non si tratta tanto di entrare in empatia, intesa come “la capacità di comprendere e condividere i sentimenti e le emozioni degli altri”, ma piuttosto poter stare con qualcuno che non si può comprendere, ma che si può certamente “contagiare” con il proprio stato d’animo, la propria allegria, la voglia di stare insieme e di saperne di più di lui/lei. Anche con i familiari è bene non avere la mira di volerli comprendere, aiutare, o compatire; per loro è sufficiente trovare un luogo di riferimento, sereno e allegro, consapevoli che i loro cari sono in “buone mani” e in luogo protetto».

 

Abbiamo chiesto anche alla dottoressa Francesca Doni, Pedagogista, di parlarci dell’aspetto pratico.

Quali atteggiamenti e comportamenti devono tenere i volontari con le persone con demenza?

«I volontari rappresentano un elemento cruciale nel supporto alle persone con demenza, non solo come presenza affettiva, ma anche come facilitatori di benessere. Gli atteggiamenti fondamentali includono empatia, pazienza e flessibilità, accompagnati da una comunicazione chiara e rassicurante. È importante adottare un approccio centrato sulla persona, che riconosca l’individualità, la storia di vita e le preferenze dell’anziano.

Comportamenti specifici raccomandati:

  • Stabilire un contatto visivo e fisico rispettoso, per trasmettere sicurezza e vicinanza
  • Riconoscere e validare le emozioni, evitando di correggere o contraddire la persona (modello della “Validation Therapy” di Naomi Feil)
  • Mantenere routine prevedibili, per ridurre ansia e confusione
  • Stimolare senza sovraccaricare, modulando ritmo e complessità delle attività in base alle capacità residue

L’atteggiamento del volontario deve sempre riflettere presenza calma e rassicurante, capace di adattarsi ai momenti di confusione e disorientamento».

Si può dare senso al tempo quando si è con persone con demenza?

«Sì, è possibile. In questo contesto il tempo non è solo quello scandito dall’orologio, ma è soprattutto tempo percepito, vissuto nel “qui e ora”. Dare senso al tempo significa trasformare le ore della giornata in momenti di significato e relazione, evitando che diventino solo attesa o vuoto.

Attraverso presenza costante, ascolto e relazione autentica, il volontario aiuta l’anziano a vivere il tempo non solo come successione di eventi (“tempo cronologico”), ma come esperienza emotivamente significativa (“tempo percepito”).

Si può dare senso al tempo:

  • Accompagnando le routine (passeggiate, lettura, momenti di cura) con attenzione e continuità.
  • Rievocando ricordi e valorizzando la storia personale, collegando passato e presente.
  • Creando piccoli appuntamenti che scandiscono la settimana, restituendo la percezione di un futuro vicino.
  • Partecipando con intenzionalità alle attività educative, rendendole occasioni di dialogo e riconoscimento reciproco.

In questo modo il volontario diventa “custode del tempo significativo”, favorendo un ritmo quotidiano che sostiene identità, orientamento e benessere. Non si limita a “riempire il tempo”, ma lo trasforma in tempo vissuto, restituendo dignità e valore alla quotidianità».

Quali attività risultano efficaci con i malati di Alzheimer?

«Non esiste una risposta univoca, né formule magiche valide per tutti. Le attività rivolte alle persone con Alzheimer, per essere realmente “efficaci”, devono essere significative per la persona che le vive. Ciò significa che devono essere personalizzate, stimolanti e orientate al benessere globale, rispettando ritmi, interessi e capacità residue. »Le evidenze scientifiche confermano l’efficacia di numerosi interventi e terapie non farmacologiche, come la stimolazione cognitiva, le attività motorie e di coordinazione, l’arte e la musicoterapia, le attività sensoriali e tattili, la reminiscenza guidata, la Validation Therapy o gli approcci multisensoriali come lo Snoezelen.

Tuttavia, ciascuna di queste modalità risponde a bisogni differenti e non può essere proposta indistintamente a tutti: ciò che funziona per una persona può risultare irrilevante o addirittura frustrante per un’altra. Il principio guida resta l’approccio centrato sulla persona: solo quando l’attività nasce dal riconoscimento dell’identità, della storia e dei desideri dell’individuo, essa può diventare significativa, ovvero capace di dare senso al tempo e all’esperienza vissuta.

In questo senso, l’efficacia non si misura soltanto nei risultati osservabili, ma anche nel valore relazionale e affettivo che l’attività assume per la persona. A volte, infatti, anche solo la relazione stessa è già un intervento: uno sguardo, una parola, una presenza empatica possono costituire un’esperienza significativa, capace di attivare risorse interiori e mantenere viva la dimensione umana della cura».

Giorgia Barile

Michela Re – Psicoterapeuta, psicoanalista

Francesca Doni – Pedagogista

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